Tecnica scultorea
Ci sono tanti motivi, oltre alla sua grande abilità artistica, per cui il genio di Canova merita di essere analizzato. Innanzitutto per aver rivoluzionato le modalità di realizzazione delle opere in marmo. Canova fu infatti il primo a realizzare dei marmi “in serie” a partire da un modello in gesso a grandezza naturale. Si partiva da un bozzetto su carta, passando poi per un modellino in creta, e poi la scultura in gesso, sulla quale venivano inseriti dei “chiodini” chiamati repere. Attraverso questi punti di riferimento e l’utilizzo di appositi strumenti, la bottega del maestro era in grado di replicare più esemplari in marmo dello stesso soggetto. Ecco perché abbiamo più di una Ebe, più di una danzatrice, più copie del gruppo delle Tre grazie e così via. Inoltre Canova ebbe l’intuizione di far “stampare” i disegni delle sue opere. Grazie alla tecnica della stampa, era possibile replicare lo stesso disegno in decine o anche centinaiadi copie e farlo girare in tutta Europa: una sorta di catalogo ante litteram che gli permetteva di far arrivare le sue opere agli eventuali committenti interessati. Il metodo di lavoro di Canova è riportato in un passo delle Memorie di Francesco Hayez:
«Il Canova faceva in creta il suo modello; poi gettatolo in gesso, affidava il blocco a' suoi giovani studenti perché lo sbozzassero e allora cominciava l'opera del gran maestro. [...] Essi portavano le opere del maestro a tal grado di finitezza che sì sarebbero dette terminate: ma dovevano lasciarvi ancora una piccola grossezza di marmo, la quale era poi lavorata da Canova più o meno secondo quello che questo illustre artista credeva dover fare. Lo studio si componeva di molti locali, tutti pieni di modelli e di statue, e qui era permessa a tutti l'entrata. Il Canova aveva una camera appartata, chiusa ai visitatori, nella quale non entravano che coloro che avessero ottenuto uno speciale permesso. Egli indossava una specie di veste da camera, portava sulla testa un berretto di carta: teneva sempre in mano il martello e lo scalpello anche quando riceveva le visite; parlava lavorando, e di tratto interrompeva il lavoro, rivolgendosi alle persone con cui discorreva»
Le fasi preparatorie, delegate all'ampio concorso di collaboratori al servizio di Canova, erano seguite dalla traduzione dell'opera in marmo, attuata con una tecnica metallurgica detta della «forma persa»: questa consisteva nell'eseguire un modello in creta a grandezza naturale dell'opera che si intendeva eseguire, per poi applicarvi uno strato di gesso bianco, così da creare una «matrice» che veniva infine distrutta. In questo modo, dopo aver ottenuto il modello e aver fissato i punti chiave, si poteva procedere con la sbozzatura del marmo: era dopo quest'ultima operazione che ai vari artisti della bottega subentrava il Canova, al quale era riservata una fase fondamentale della gestazione dell'opera, quella propriamente detta «dell'ultima mano». Il Canova si preoccupava in particolare di eliminare le imperfezioni residue e di rifinire l'opera con gli ultimi e più decisivi ritocchi: seguiva,infine, l'intervento del lucidatore, che rendeva lucide le superfici conferendo loro una diafana lucentezza. Famosa l'abitudine di Canova di applicare sulle parti epidermiche dell'opera una speciale patina, così da simulare il colore dell'incarnato e dare alle proprie statue una parvenza di vita. Sulla natura di tale sostanza le fonti sono discordi: per il Fernow si sarebbe trattato di «fuliggine», per Leopoldo Cicognara di «acqua di rota» (ovvero acqua contaminata in seguito all'arrotamento di una lama), mentre appare più probabile che si sia trattato di cera rosa o di ambra. Numerosi erano gli strumenti impiegati dal Canova, che per le proprie opere si serviva di «nuovi ferri, e raschiatori, e trapani, e punte d'ogni maniera».È interessante notare che, secondo il Canova, la gestazione di un'opera si articolava in due momenti principali: la fase iniziale dell'ideazione, e quella finale dove l'artista apporta gli ultimi interventi. È così che il processo creativo si risolve in un fenomeno di sublimazione, dove dalla folgorazione intuitiva iniziale, violenta e improvvisa, si arrivava alla contemplazione della forma pura finale: questo percorso in termini filosofici si traduce nella transizione dal piano dell'io empirico a quello dell'io trascendentale.